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Spedizione alle piramidi di Pantiacolla |
A tutt’oggi, in pieno XXI secolo, esistono dei luoghi nella
Terra, ancora inesplorati.
Uno di questi luoghi, avvolto dal mistero e quasi totalmente
sconosciuto è la zona di foresta primaria dove si trovano le
piramidi di Pantiacolla.
In Sud America, gran parte della selva amazzonica a ridosso del confine tra Perù e Brasile è poco conosciuta. In particolare l’alto Purus, il Rio Iaco, l’alto Tambopata e il parco del Manu. Questi territori, che hanno risvegliato da sempre la mia curiosità, forse racchiudono il mistero di un antico popolo, che dominò il continente, in un’epoca remota.
Il 30 dicembre 1975 il satellite statunitense Landsat 2, fotografò un’area della giungla peruviana, nel dipartimento del Madre de Dios.
L’immagine dell’area forestale, mise in luce una serie di sei punti, a coppie di due, simmetrici e regolari. Inizialmente si pensò ad un errore, ma poi, in seguito ad attente analisi di esperti cartografi come A.T. Tizando, si giunse alla conclusione che quegli strani oggetti nella selva dovevano essere molto alti, almeno 150-200 metri. Se erano disposti in modo simmetrico non potevano essere formazioni naturali, ma prodotto dell’uomo. Forse erano piramidi costruite in un remoto passato per motivi rituali o cerimoniali.
Le cosiddette piramidi di Pantiacolla (dal quechua: luogo dove si perde la principessa), si trovavano in una zona di selva remota e inesplorata, situata nella giungla del Madre de Dios, un luogo quasi inaccessibile.
Presto s’iniziò a fantasticare. Il fatto che l’area del Madre de Dios sia stata indicata da molti come il luogo dove gli Incas si nascosero in seguito all’avanzata degli spagnoli verso il Cusco nel 1533, e la supposta esistenza di una loro città nascosta nella selva, detta Paititi, non fecero altro che alimentare la credenza che queste piramidi avessero a che fare con la leggenda dell’El Dorado. Inoltre la loro relativa vicinanza con i bellissimi petroglifi di Pusharo, luogo misterioso situato presso il Rio Shinkibeni, all’interno della foresta primaria del Manu, ha spinto alcuni esploratori a raggiungere la zona, tentando di svelarne i misteri.
Il primo non-indigeno che si avvicinò alle piramidi, fu il giapponese Yoshiharu Sekino, nel 1977. Il giovane, pur non riuscendo a raggiungere il luogo enigmatico, venne in contatto con numerosi indigeni Matsiguenkas e contribuì a far conoscere la loro cultura, fino ad allora praticamente sconosciuta.
Quando nel 1979, i coniugi Herbert e Nicole Cartagena, scoprirono, non lontano dal Rio Nistron, delle rovine incaiche, poi chiamate Mameria, fu provato che gli Incas si erano addentrati nella selva ad oriente del Cusco, cercando di scappare dai conquistadores. L’interesse per la selva del Madre de Dios tornò a crescere.
L’enigma delle piramidi di Pantiacolla (dette anche Paratoari, nella lingua Arawak dei Matsiguenkas), rimaneva.
Il primo sorvolo della zona delle piramidi fu effettuato nel 1980, in seguito a una spedizione organizzata dall’archeologo italiano Giancarlo Ligabue. Il primo esploratore che però vi giunse fu, nel 1996, l’archeologo statunitense Gregory Deyermejian, accompagnato dalle guide Paulino e Ignacio Mamani, e dal figlio del dottor Carlos Neuenschwander Landa, Fernando. In seguito ad approfonditi studi sul territorio arrivarono alla conclusione che le cosiddette piramidi non sono altro che strane formazioni naturali.
Per altri esploratori però, le cose non sono così semplici: in seguito ad alcuni viaggi presso la zona del Rio Negro, affluente del Palotoa, sostennero che esse sono naturali, ma sono state modificate dall’uomo in epoche pre-incaiche e hanno relazione con la città perduta degli Incas, Paititi. Secondo altri ricercatori, le piramidi sarebbero state utilizzate come dei luoghi rituali e religiosi dagli Incas che s’inoltrarono nella selva.
Quando nel 2001, l’archeologo italiano Mario Polia trovò, negli archivi vaticani, una lettera originale del gesuita Andrea Lopez, risalente ai primi anni del XVII secolo e diretta al quinto generale dell’ordine, Claudio Acquaviva, il mistero della città perduta tornò ad affascinare il mondo. Nella lettera, infatti, reputata originale, si descrisse il regno di Paititi, florido nel 1600, e ricchissimo in oro e pietre preziose.
Si ricominciò dunque a parlare delle misteriose piramidi, come un luogo ancestrale, costruito dall’uomo nel lontano passato e nelle vicinanze del quale gli Incas avrebbero costruito la loro Paititi per scappare alle forze del male, rappresentate dai conquistadores. Secondo queste credenze presso le piramidi si troverebbe la chiave non solo di Paititi, ma della fantastica cultura amazzonica che le edificò, in un remoto passato.
E’ possibile che le piramidi siano un centro di energia sconosciuta che forse fu imbrigliata da antichi popoli antidiluviani? Secondo alcuni queste sono solo fantasie, ma a mio parere non è possibile parlare con cognizione di causa fino a che non si viaggia direttamente sul territorio in questione, cercando di raccogliere più dati scientifici possibili, ma anche cercando di “sentire” quello che la scienza non può svelare, magari perché il tempo lo ha cancellato. Le sensazioni infatti spesso ci conducono alla verità, sempre e quando siano supportate da un serio e rigoroso lavoro scientifico.
Il mio viaggio alle piramidi di Pantiacolla risale al giugno del 2009. Una volta giunto al Cusco, insieme all’amico torinese Stefano Grotto, mi sono incontrato subito con la mia guida, Fernando Rivera Huanca, un ragazzo affidabile ed esperto. Il giorno successivo abbiamo attraversato la sierra e siamo giunti, dopo nove ore di viaggio in fuoristrada, nel paese di Atalaya, sulle rive del Madre de Dios. L’indomani, di buon ora, ci siamo imbarcati su un peque peque (imbarcazione con poco pescaggio con motore di 16 cv), e ci siamo diretti, navigando lungo il Madre de Dios, fino all’imbarcadero di Llactapampa Palotoa, paese di coloni situato nella riva opposta rispetto a Santa Cruz. Il villaggio di Palotoa (a circa 420 metri sul livello del mare), è situato circa un chilometro nell’interno del fiume ed è costituito da casupole di legno senza elettricità. Poco dopo abbiamo incontrato la guida Saul e abbiamo iniziato a prepararci per la partenza. Stefano Grotto ha deciso di rimanere al villaggio come base in caso di emergenza, e così siamo partiti in tre: il sottoscritto, Fernando Rivera Huanca e Saul Robles Condori. Avevamo provviste sufficienti per sei giorni, e in più Fernando mi assicurò che Saul era un esperto pescatore.
Il primo pezzo, di circa tre ore di cammino, è una foresta densa e umida, ma con sentiero. Spesso abbiamo dovuto attraversare delle piccole lagune (cochas), con fondo fangoso e insidioso e acqua alle ginocchia. Verso mezzogiorno siamo giunti presso il Rio Inchipato, un affluente del Madre de Dios che sfocia non lontano dal Palotoa. Nel luogo dove l’abbiamo attraversato, con l’acqua alla vita, è largo circa quindici metri e le sue acque sono limacciose. Quindi abbiamo consumato un pasto frugale e poi abbiamo iniziato a risalire il fiume camminando presso le sue sponde. Varie volte siamo stati costretti, a causa del fondo sabbioso e fangoso, ad attraversarlo, per cercare di avanzare su parti più consistenti, in modo da fare meno fatica. Verso le quattro del pomeriggio, dopo aver camminato sette ore, abbiamo deciso di fermarci per dormire, su una grande spiaggia circondata da alberi alti circa cinquanta metri. Quel luogo è stato denominato campo 1.
Di notte, prima di addormentarci, cominciò a piovere, e il fiume aumentò rapidamente il suo livello. Tutto sarebbe stato più difficile l’indomani, anche perché con la pioggia sarebbe scesa la nebbia (neblina in spagnolo), e avrebbe reso difficile ubicare le piramidi.
Le mie supposizioni purtroppo si rivelarono giuste: l’indomani mattina ci svegliammo alle cinque, sotto una pioggia insistente. La temperatura era scesa e c’era un vento fastidioso: sembrava quasi di non essere in selva amazzonica, ma in tutt’altra latitudine.
Mentre avanzavamo con difficoltà sotto la pioggia, affondando nel fango a volte fino alla vita, e soprattutto stando attenti a non calpestare le pericolosissime razze di fiume e a non far cadere in acqua gli zaini (dove c’erano videocamere e macchine fotografiche), abbiamo trovato un petroglifo, proprio su una roccia del fiume Inchipato, chiaro indizio della presenza umana arcaica presso le rive di questo fiume. I segni incisi nel masso mi ricordarono stranamente quelli del petroglifo di Queros nel territorio degli Wuachipaeris, non lontano dal paese di Pilcopata, nel dipartimento di Cusco. Dopo circa un’ora di cammino abbiamo trovato uno strano segno naturale, secondo me utilizzato per far seguire la giusta via verso le piramidi. Questi ritrovamenti ci hanno sollevato il morale, e ci hanno dato un nuovo impulso a continuare la nostra avventura.
Verso mezzogiorno non pioveva più ma il cielo era coperto da nubi minacciose, e in lontananza si vedeva il cerro Palotoa sommerso dalla neblina. Con queste condizioni era impossibile scorgere da lontano le piramidi per rendersi conto quale fosse la giusta direzione da seguire. Saul cercava un luogo elevato, chiamato mirador o plataforma, da dove si sarebbe potuto, con buone condizioni climatiche, scorgere le piramidi, ma non lo ha trovato. Ci siamo fermati per mangiare e fare il punto della situazione.
Malgrado il cielo fosse nuvoloso, il caldo umido non tardò a farsi sentire e le zanzare, insieme a fastidiosi moscerini che s’infilano sottopelle, iniziarono a renderci la vita difficile.
Abbiamo ripreso ad avanzare fino a quando, verso le tre del pomeriggio il fiume si divideva in due rami. Saul e Fernando erano perplessi sulla giusta direzione da seguire e così abbiamo deciso di lasciare gli zaini su una spiaggia non lontana e proseguire risalendo il braccio di destra, solo con i nostri machete e le macchine fotografiche. La quebrada (torrente) di destra si è rivelata la via sbagliata e così siamo tornati verso gli zaini decisi a proseguire avanzando lungo il braccio sinistro.
Abbiamo seguito il cammino per circa due ore, ma siamo stati costretti a lasciare spesso il fiume perché era troppo profondo e le sue rive erano dei pantani fangosi dove era impossibile non affondare. Ci siamo inoltrati così nella selva intricata, avanzando a colpi di machete per aprirci la strada lungo il cammino, senza perdere di vista il fiume.
Verso le quattro abbiamo deciso di fermarci presso il fiume e allestire il campo 2, dal quale l’indomani avremmo proseguito l’esplorazione più leggeri, senza il peso degli zaini.
L’indomani mattina ci svegliammo nuovamente sotto una pioggierellina insistente, il clima plumbeo e freddo non invitava ad iniziare una nuova camminata, ma d’altronde nemmeno le tende, gocciolanti di umidità, invitavano a starvi dentro. Avanzammo lungo il torrente per circa due ore, stando attenti a non slogarci le caviglie perché il fondo era costituito da pietre scivolose e aguzze. Verso le dieci smise finalmente di piovere e la neblina iniziò a dissolversi. Non sapevamo dove dirigerci perché secondo noi le fonti dell’Inchipato erano spostate verso sinistra rispetto alle piramidi e percorrendolo avremmo perso la giusta via.
Ad un certo punto, abbiamo deciso di entrare decisamente nella foresta, risalendo una ripida scarpata fangosa, aiutandoci con una corda. Una volta in cima, abbiamo iniziato ad avanzare ma la vegetazione era così fitta e intricata che c’era bisogno di un grande dispendio di tempo ed energie per avanzare con i machete. Saul propose di rientrare da solo verso l’Inchipato, per cercare di esplorare altri torrenti nell’intento di raggiungere un luogo elevato per scorgere da lontano i nostri obiettivi.
Io e Fernando accettamo: noi avremmo continuato nella selva salendo per quello che credevamo essere parte della sierra, mentre lui si dirigeva nuovamente verso il fiume.
Fernando apriva il cammino macheteando, mentre io da dietro filmavo e osservavo il terreno. Ad un certo punto l’inclinazione del suolo cambiò: da una leggera salita si passò ad una ripida parete (circa 65% di pendenza), obbligandoci ad aiutarci con le mani per avanzare. Presto ci siamo resi conto che la cappa di terra dove ci trovavamo non era profonda: i nostri machete toccavano uno strato roccioso dopo aver attraversato circa 40-50 centimetri di humus. Infatti eravamo circondati da arbusti spinosi le cui radici non potevano essere profonde. La visuale era però ancora occlusa dagli alti alberi che affondavano le radici nella terra più profonda, che avevamo da poco lasciato.
Abbiamo scavato per renderci conto cosa fosse quella roccia che stava al di sotto dell’humus e abbiamo trovato, stupiti, una roccia simile a sabbia dura, molto friabile, di colore marrone con striature bianche e rossastre. La parete intera, quasi perfettamente liscia, era costituita da sabbia dura! A quel punto eravamo certi di essere su di una delle piramidi di Pantiacolla.
Continuando a avanzare molto lentamente, risalimmo i circa duecento metri che ci separavano dalla cima. La salita era molto difficile perché i rami degli arbusti erano percorsi da agressive formiche e contornati da aguzze spine. Le nostre scarpe affondavano nell’intricata massa vegetale e s’insinuavano pericolosamente in anfratti bui che avrebbero potuto essere covo di serpenti velenosi. Malgrado tutto ciò, abbiamo mantenuto la calma, e, dopo circa mezzora, abbiamo raggiunto la cima della piramide.
Sulla "cumbre del condor"
Dopo aver proceduto a fare spazio, aiutandoci con i machete, uno spettacolo meraviglioso ci si è presentato davanti: altre tre piramidi si ergevano davanti a noi, e sulla destra si estendeva a perdita d’occhio la selva del Manu, la più incontaminata e bio-diversa del pianeta. In lontananza si poteva scorgere, con l’aiuto dei binocoli, il pongo del Shinkibeni, dove ci sono i petroglifi di Pusharo, e la cordigliera di Pantiacolla, ultimo avamposto prima della selva bassa amazzonica.
Fu uno dei momenti più belli della mia vita.
Già da qualche ora non pioveva più, la visibilità era molto buona e, anche se non era uscito il sole, la luminosità era sufficente per farci contemplare quello spettacolo di rara bellezza.
Anche le altre piramidi, osservate da lontano con i binocoli, sembravano avere le stesse caratteristiche di quella che abbiamo scalato: arbusti bassi e non alberi d’alto fusto. Tutto fa supporre che il nucleo delle piramidi sia quella particolare sabbia dura ma friabile, ma la cosa strana è che i lati sono geometricamente tagliati e non vi sono apprezzabili difformità.
Per quanto riguarda la supposta simmetricità delle piramidi, abbiamo verificato che ciò corrisponde alla realtà solo in parte: dalla nostra posizione si potevano vedere chiaramente tre piramidi ma non erano simmetriche, bensì disposte vicine l’una all’altra e due situate vicino al cerro Palotoa, come se vi fossero appoggiate. Dopo aver fatto alcune riprese abbiamo sentito un fischio, e inizialmente ci allarmammo: non era un fischio di un uccello ma bensì di un umano e siccome nella zona vi sono i temibili Kuga-Pacoris, per qualche istante abbiamo creduto che uno di loro ci avesse seguito. Fernando però rispose al fischio e poco dopo si rese conto che era Saul, la nostra guida.
Saul, non avendo trovato la giusta via lungo il fiume, era tornato sui nostri passi e aveva seguito il nostro cammino, osservando i segni lasciati dai nostri machete sugli arbusti.
Quando Saul arrivò sulla cumbre (cima), ci abbracciammo contenti e poco dopo iniziammo a mangiare: scatolette di fagioli e tonno. Ad un tratto un enorme condor delle Ande (vultur gryphus), si avvicinò planando, come per salutarci. Quasi riuscimmo a scorgerne il contorno del becco e del collo. Fu un momento meraviglioso, rimanemmo tutti attoniti senza poter proferire parola. Il condor è l’uccello volatore più grande del mondo, può pesare dodici chili e la sua apertura alare raggiunge i tre metri. Abbiamo avuto la sensazione che fosse l’anima di un Apu (Divinità degli Incas), che ci controllasse da lontano. Quando il condor si è allontanato abbiamo deciso di battezzare la piramide scalata cumbre del condor (cima del condor).
Dopo aver fatto altre riprese, e dopo aver esplorato le vicinanze della cima, abbiamo deciso di tornare indietro: ormai erano le tre del pomeriggio e non volevamo trovarci intrappolati nella selva quando avrebbe fatto notte (alle cinque è già buio in selva, anche a causa dell’ombra causata da alberi altissimi).
Dopo circa dieci minuti di ripida discesa ha cominciato a piovere. In pochi istanti stava diluviando e si alzò anche un vento freddo e impetuoso.
Il nubifragio era fortissimo: fragorosi tuoni rimbombavano da lontano. I lampi erano molto luminosi e sembrava ci stessero accerchiando. Ad ogni bagliore riuscivo a distinguere le pareti della piramide e i rami degli arbusti, le cui radici si avviluppavano tra pietre e sterpi spinosi. Avevo paura che uno di quelle saette ci fulminasse e camminavo velocemente cercando di non perdere di vista le mie guide che, molto più agili di me, mi distanziavano di circa trenta metri. Dopo circa venti minuti di tensione siamo giunti presso il fiume. Il forte acquazzone era finito, ma la tempesta elettrica continuava. Non avevo mai visto niente di simile. I lampi sono proseguiti per circa mezz’ora e la volta celeste, percorsa da uno strano fragore e luccicanti balenii, ha assunto un colore tetro, tendente al violaceo.
Quindi abbiamo proseguito per il campo 2, dove ci siamo riposati e rifocillati. Mentre io e Fernando cucinavamo dell’ottimo riso al pomodoro, Saul si dedicava alla pesca. Dopo circa mezzora è tornato con vari pesci ed alcune canne di bambù. La cosa curiosa è che i bambù gli sono serviti proprio per cucinare il pesce, che fu infilato nelle cavità dei tronchi. Ho voluto anche io provarne alcuni pezzi e ho constatato che era cucinato benissimo. Saul mi spiegò che gli indigeni Matsiguenkas gli insegnarono a pescare e a cucinare il pesce nei bambù in quel modo e anche a riconoscere una quantità innumerevole di piante, adatte a curare ferite e malattie che si originano nella foresta a causa degli insetti e dell’umidità.
In serata abbiamo fatto il punto della situazione: siccome avevamo già in parte raggiunto l’obiettivo della spedizione, e cioè renderci conto di persona di cosa ci sia sotto l’humus che costituisce la cappa vegetale delle piramidi, e in più avendo avuto la fortuna di scalarne una fino alla cima e di aver trovato importanti petroglifi, abbiamo deciso di rientrare verso il villaggio di Llactapampa Palotoa l’indomani, anche considerando che i viveri sarebbero giusto bastati per altri due giorni.
L’indomani mattina, mentre stavamo organizzandoci per il viaggio di ritorno, mi allontanai dal campo base di circa venti metri per scattare le ultime foto. Ad un certo punto, mentre stavo osservando una pietraia, per vedere se trovavo resti di asce incaiche o pietre lavorate, percepii di non essere solo. Sentii un fruscio e un rumore di ramoscelli spezzati e foglie calpestate. Ebbi l’impressione di trovarmi vicino ad un animale molto leggero, che non poteva trovarsi a più di dieci metri da me. Trattenni il respiro, e cercai di aguzzare la vista, guardando tra i rami degli alberi e tra il fogliame. Era un uccello, di colore marrone, con la coda lunga e scura, che zampettava non lontano da me, emanando un odore forte, sgradevole. Dopo pochi istanti riuscii ad avanzare senza fare rumore e spostai lentamente una grande foglia per vederlo meglio: era stranissimo, aveva una testa molto piccola in relazione al corpo, e il becco era nero, lucente. Da lontano sembrava quasi un gallo, e aveva l’occhio di colore rosso vivo, circondato da peli biancastri. Ad un tratto, forse perché si rese conto della mia presenza, spiccò un salto, e s’inerpicò su un ramo, ma a quel punto successe una cosa stranissima: aiutandosi con l’ala, riuscì a risalire il ramo. Quell’ala era dotata di unghie, anche se arcaiche. Come era possibile? Un uccello dotato di unghie, o artigli alari? Per un attimo pensai di sognare e quasi non credetti a quello che avevo visto. Dopo pochi istanti lo strano uccello si dileguò nell’intrico di rami e fogliame. Poco dopo cercai nel mio vademecum naturalistico e trovai la risposta: quell’uccello era reale, anche se arcaico, era un hoazin (opisthocomus hoazin, chiamato chancho in Perú), galliforme a metà strada tra rettile e uccello, che ricorda l’estinto archaeopteryx, l’uccello più primitivo che si conosca, vissuto milioni di anni fa. Ero incredibilmente felice, poche persone sono riuscite a vedere un fossile vivente come l’hoazin e lo considerai come un buon segno premonitore, indizio che la spedizione si era svolta sotto una luce positiva e di buon augurio per il futuro.
Il viaggio di ritorno è stato relativamente più facile di quello d’andata, principalmente perchè alcuni difficoltosi passaggi presso varie anse del fiume erano stati già aperti durante l’andata. Il primo giorno siamo riusciti ad arrivare oltre il campo 1, e abbiamo dormito presso una spiaggia non lontana da un intricato canneto di alti bambù. Non ha piovuto e così ne abbiamo aproffittato per far asciugare i vestiti bagnati.
L’indomani mattina abbiamo iniziato a camminare verso le sette. In poche ore abbiamo raggiunto il luogo dove, cinque giorni prima avevamo iniziato a camminare lungo il fiume e ci siamo nuovamente infilati nella selva vergine. Dopo circa un’ora abbiamo trovato l’orma di un orso dagli occhiali (tremarctos ornatus), diffuso nella selva alta amazzonica. Pensavo fosse endemico delle zone più elevate, ma successivamente ho letto che può vivere dall’altitudine di 250 fino ai 4500 metri sul livello del mare. E’ un onnivoro di circa 150 chilogrammi, lungo quasi due metri. Ho sentito un brivido lungo la schiena pensando che avrebbe potuto attaccarci durante la nostra esplorazione.
Verso le due del pomeriggio siamo giunti a Llactapampa Paolotoa, dove Stefano ci ha accolti con un ottimo risotto al curry.
Dopo esserci riposati, abbiamo fatto un bilancio della spedizione: oltre ad aver trovato dei petroglifi, indizi di una remota presenza umana presso il Rio Inchipato, abbiamo provato che la piramide che abbiamo scalato è una strana formazione naturale, la cui cappa vegetale non è profonda più di 40-50 centimetri, e il cui nucleo è costituito da sabbia dura ma friabile. Purtoppo non abbiamo potuto verificare la reale natura delle altre piramidi, in quanto sarebbe necessaria una spedizione di almeno venti giorni.
Il mistero delle piramidi di Pantiacolla continua. Resta inoltre il dubbio se alcuni gruppi di umani siano vissuti nelle vicinanze di esse nel passato, considerandole luoghi rituali o cerimoniali. Per ora non abbiamo le sufficienti informazioni per dare un giudizio definitivo. |
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Autore: |
Yuri Leveratto
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Copyright: |
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Il: |
06/11/2009 |
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