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Diritti umani e cultura dell’impunità in Messico e in America Latina: dalla guerra sucia a Oaxaca |
Il governo dell'ex presidente messicano Vicente Fox non ha
brillato per la volonta' politica di condannare le
violazioni commesse durante la guerra sucia. In sudamerica
molti processi sono stati riaperti. Oggi a oaxaca
l'impunita' continua
Direttamente da Washington, è arrivata a rompere l’amenità delle vacanze pasquali la denuncia di Human Right Watch (HRW) per gli scarsi risultati ottenuti dalla procura speciale creata nel 2002 dall’ex-presidente messicano Vicente Fox (2000 – 2006) con lo scopo di investigare i casi di tortura, sparizione, esecuzioni sommarie e altre gravi e sistematiche violazioni commesse durante la cosiddetta “guerra sucia” (guerra sporca) degli anni 60, 70 e 80. Come segnala l’organizzazione umanitaria, il primo sforzo serio del Messico per ottenere giustizia è risultato un palese insuccesso visto che non s’è avuta nessuna condanna e i responsabili non sono stati nemmeno identificati. Lo smantellamento della Procura Speciale per i Movimenti Sociali e Politici del Passato, come si chiamava l’organo preposto all’indagine della guerra di bassa intensità condotta dal governo messicano contro numerosi gruppi che rappresentavano forse l’unica forma reale d’opposizione e dissidenza politica, è stato concluso formalmente poco prima della Pasqua, dopo la destituzione, già avvenuta il 30 novembre scorso, del procuratore generale Daniel Cabeza de Vaca.
Forse l’unico riconoscimento che è doveroso attribuire all’agenzia creata da Fox è l’elaborazione del rapporto su 18 anni di guerra sporca in Messico che si può scaricare alla seguente pagina e che descrive minuziosamente uno dei capitoli più oscuri e drammatici, oltre che poco conosciuti all’estero, della storia della falsa democrazia messicana durante la fase discendente del regime a partito unico (il PRI, Partido Revolucionario Institucional). In effetti non esiste una pagina web dell’organismo governativo da poco cancellato e non si trova traccia del suo rapporto finale in siti ufficiali messicani e questi sono elementi che testimoniano la scarsa volontà di diffusione delle informazioni al di là degli annunci altisonanti in favore dei diritti umani che si sono succeduti negli anni del governo Fox. Ad ogni modo, se da una parte è stato fatto un primo sforzo di chiarezza e sistematizzazione di tipo storico, dall’altra non s’è proceduto né alla necessaria riparazione del danno né all’ammissione pubblica dei delitti commessi da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti attuali e passati. Rimane, quindi, l’amaro sapore dell’impunità e dell’impotenza, reso ancora più pungente dalla conoscenza e l’apprendimento sofferto dei crimini, che alla fine saranno imputati a fantasmi fuggiti tra documenti bruciati e archivi sotterrati dai terremoti della non giustizia messicana.
Nell’altro estremo della regione latino americana, nell’Argentina post – crisi del presidente peronista Nestor Kirchner, è in corso, invece, un profondo revisionismo e stanno tornando a galla le colpe legate ai crimini efferati commessi durante l’ultima dittatura militare (1976 – 1983). La cancellazione delle Leyes de Amnistia, una serie di provvedimenti legali approvati all’inizio della nuova tappa democratica per proteggere militari e criminali di Stato, è stata formalizzata, infatti, da una decisione della Corte Suprema argentina nel giugno del 2005. Il provvedimento è stato accolto con giubilo dalla società civile e dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani ed ha favorito la riapertura di importanti processi nei confronti dei principali responsabili di un regime che ha scandalizzato il mondo intero con oltre 15.000 (ma si arriva a parlare anche di 30.000) oppositori desaparecidos.
L’attitudine bellicosa e nazionalista dei militari, elevatisi a estremi difensori di un atollo di patria perduta oltre 100 anni prima, si autodistrusse in seguito alla Guerra delle Isole Malvine o Falklands, che tra l’aprile ed il giugno del 1982 causò oltre 600 vittime tra i militari argentini sconfitti dalle truppe del Regno Unito. Anche in Uruguay, paese insanguinato da una crudele dittatura militare tra il 1973 e il 1985, si sta muovendo qualcosa e il governo del Frente Amplio guidato da Tabaré Vazquez sta mettendo in discussione la Ley de Caducidad che impedisce qualunque processo dei crimini perpetrati in quegli anni.
Il caso argentino e quello uruguaiano, purtroppo, rappresentano una rara eccezione se osserviamo globalmente la situazione dell’America Latina che, dopo il ritorno della democrazia formale o elettorale negli anni 80, ha mantenuto gli apparati giudiziari relativamente deboli costruiti durante le dittature. D’altronde lo stesso ex dittatore cileno (1973 – 1990) Augusto Pinochet, è morto senza essere stato condannato e si procede ora contro alcuni membri della sua famiglia e del suo clan per cercare almeno di recuperare gli avanzi del patrimonio defraudato alla società cilena. La cultura dell’illegalità ereditata dai regimi di fine secolo scorso ha creato a sua volta una dannosa cultura dell’impunità: in America Latina il 95% dei delitti comuni non viene punito mentre in Messico e in Guatemala la media è del 98%.
In quest’ultimo paese, il conflitto armato ha prodotto oltre 200.000 vittime dal 1962 al 1996 ma sembra che non ci sia possibilità alcuna per i magistrati spagnoli che si occupano del caso, primo fra tutti il giudice Santiago Pedraz, di ottenere l’estradizione, tra gli altri, dell’ex-Presidente de facto Efrain Rios Montt (1982 – 1983) che aspira invece all’immunità dato che s’è candidato a un seggio come deputato nel prossimo parlamento. Sempre in Guatemala, nel febbraio scorso sono stati assassinati a colpi di pistola tre deputati salvadoregni appartenenti al Parlamento Centroamericano e, poco dopo, i tre poliziotti accusati del delitto sono stati freddati in carcere senza che fossero accertate responsabilità. La speranza di risolvere questi casi così eclatanti sta lasciando lentamente spazio all’oblio da parte della stampa e degli stessi governi coinvolti.
Per quanto riguarda El Salvador, paese che insieme alla Colombia guida la triste classifica del numero di morti violente per capita nella regione, si può affermare che, dopo la fine della guerra civile nel 1992, è sprofondato in un’ininterrotta scalata di violenza dovuta alla povertà estrema e all’esclusione sociale. Questo ha portato a una progressiva militarizzazione degli apparati statali e ad un incremento delle forze di polizia. Proprio i corpi speciali, l’esercito e la polizia sono i principali responsabili dell’incremento nelle violazioni dei diritti umani. Bisogna sottolineare che la Colombia e El Salvador sono tra i pochi paesi latinoamericani che continuano a inviare massicciamente i loro ufficiali e soldati a “istruirsi” nella celebre Escuela de las Americas di Fort Benning, in Georgia, Stati Uniti. Nato negli anni 40, questo sinistro centro di addestramento militare ha incrementato la sua influenza anche grazie alla costruzione di una sede nella selva di Panamà ed ha visto passare nei suoi campi oltre 70.000 soldati latinoamericani. Almeno 11 dittatori sono usciti dalla scuola, tra di loro gli argentini Leopoldo Galtieri (1981-82) e Roberto Viola (1981), i boliviani Hugo Bánzer Suárez (1971-78) e Luis García Meza (1980-81), il guatemalteco Efraín Ríos Montt (1982-83) e il cileno Augusto Pinochet (1973-90). Un altro allievo eccellente della Scuola è stato il maggiore dell’esercito salvadoregno Roberto D’Aubuisson, creatore degli squadroni della morte in El Salvador e autore morale dell’assassinio dell’arcivescovo Oscar Romero nel 1980. Altri personaggi in posizione di secondo piano imposero la tortura e l’assassinio come una routine militare: Vladimiro Montesinos, numero due di Fujimori in Perù (1990-2000), era un allievo eccellente della Scuola, così come Manuel Contreras, capo dei servizi segreti della dittatura cilena e responsabile degli assassinii del cancelliere Orlando Letelier nel 1976 e dell’ex capo dell’Esercito Carlos Prats nel 1974.
Tornando di nuovo sul fronte messicano, il direttore per le Americhe di Human Right Watch ha condannato l’immobilismo istituzionale dichiarando perentoriamente che “l’ufficio del procuratore speciale può anche essere smantellato, ma la necessità di risanare l’eredità di abusi passati rimane” e, quindi, “il Messico deve ancora trovare una strada per adempiere al suo obbligo di ricercare e giudicare questi casi”. Senza dubbio il 2006 è stato un anno da dimenticare per le fragili istituzioni messicane che, incapaci di canalizzare il malcontento dei quasi 50 milioni di poveri che vivono di migrazione e precarietà, hanno dovuto ricorrere a metodi repressivi in ripetute occasioni ad Atenco, a Città del Messico, nello Stato del Michoacan ed infine nella splendida città di Oaxaca dove, dal maggio scorso, imperversa un grave conflitto sociale che è costato oltre 20 morti. Alla fine di marzo è stato reiterato lo stato di allerta e di pericolosità riguardante Oaxaca da parte dell’ambasciata statunitense in Messico che cerca tiepidamente di fare pressione affinché le ricerche giudiziarie sull’omicidio del giornalista indipendente Brad Will, ucciso durante gli scontri che alcuni infiltrati del PRI hanno provocato contro integranti della APPO (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca) il 27 ottobre 2006, possano condurre ai colpevoli. D’altro canto, il governo messicano ha mostrato la sua cattiva disposizione nei confronti di un’analisi trasparente dei fatti e, anche grazie alla connivenza di mass – media antidemocratici, ha sempre privilegiato la colpevolizzazione dei membri della APPO piuttosto che ricercare i responsabili nelle file del corrotto governo dello Stato presieduto dal governatore Ulises Ruiz. La verità sul caso Brad Will potrebbe risultare decisamente scomoda per il governo del PAN e del suo alleato PRI visto che un’eventuale accertamento delle responsabilità porterebbe alla luce le strategie repressive, basate anche sulla contrattazione di sgherri e pistoleros per rompere marce e assemblee, che sono state usate dal governo di Oaxaca non solo in questo conflitto ma in oltre trent’anni di lotte.
Nella sua prima visita a Oaxaca il 29 marzo 2007, il Presidente messicano, Felipe Calderon, del Partido Accion Nacional (PAN, formazione politica di netto stampo conservatore), ha incontrato il governatore Ulises Ruiz che lo ha salutato come “presidente legittimo” sottolineando l’alleanza politica che il PRI e il PAN mantengono a livello locale e nazionale contro i partiti di opposizione che formano il Frente Amplio Progresista (Partido Revolucion Democratica, Convergencia e Partido Trabajadores). Le parole del governatore, orientate a riconfermare il dogma della legittimità presidenziale, assumono evidentemente delle tinte grottesche e inquietanti dato che tanto il signor Ulises Ruiz come il presidente Calderon sono stati eletti con un margine strettissimo di voti e hanno scatenato le proteste delle opposizioni a causa di accertate irregolarità elettorali, in un paese che possiede una lunga tradizione fatta di frodi e brogli di ogni tipo. Il presidente Calderon ha ribadito la necessità di superare i problemi di corruzione, abuso, impunità e violenza nella zona per cercare di cicatrizzare le ferite di una lotta senza vincitori, ma non ha specificato di fronte a Ruiz quali sarebbero le modalità precise per uscire dal baratro in cui questo s’è rinchiuso dopo lo scoppio del conflitto. Calderon ha propugnato in tutto il paese una politica di militarizzazione per lottare contro il narcotraffico ma la sua iniziativa non ha brillato per efficacia nonostante la campagna propagandistica che pretende di dimostrare il contrario a colpi di cifre sugli arresti e sui chili di cocaina sequestrati. In oltre quattro mesi di governo le iniziative del tandem PAN – PRI non si sono pronunciate a favore delle necessarie riforme del sistema fiscale, per renderlo più progressivo, e delle istituzioni sempre più prive di legittimità.
In questo contesto, Iñaki García, portavoce della “Comisión Civil Internacional de Observación de los Derechos Humanos” (CCIODH), ha affermato che è “un’ingenuità pensare che il conflitto sia risolto” e ha avvertito che “ritardare le misure di giustizia può far esplodere di nuovo la violenza”. Sulla stessa linea è intervenuta la sezione 22 del sindacato dei docenti di Oaxaca che ha chiesto il rispetto degli accordi che, in pieno conflitto, erano stati comunque sottoscritti dalla precedente amministrazione ma che oggi sembrano essere ancora lettera morta e rischiano di riattivare gli scontri.
Nel documento che la Commissione ha consegnato al Ministero degli Interni messicani si raccolgono le drammatiche testimonianze di tutte la parti coinvolte nel conflitto e si analizzano le innumerevoli violazioni dei diritti umani dei cittadini di Oaxaca. Il resoconto presenta una situazione riprovevole e decisamente preoccupante che gli abitanti di questa regione, tra le più povere del Messico insieme al Chiapas, Guerrero e Veracruz, sopportano da decenni e alla quale non s’è voluto porre rimedio alcuno. La logica istituzionale basata sull’autoritarismo applicata in pieno ventunesimo secolo ha prodotto l’inevitabile radicalizzazione dei movimenti sociali a cui è stata sbarrata ogni via ragionevole di dialogo mentre le autorità competenti si dimostravano incapaci di trovare soluzioni accettabili. Le radio gestite dal governo di Oaxaca, come la ormai tristemente nota Radio Ciudadana 99.1 FM e i siti internet (si veda l’allarmante pagina web) costruiti ad hoc per stroncare il movimento oppositore ricorrono a subdoli proclami che incitano “i cittadini lavoratori onesti” alla violenza e al ristabilimento “dell’ordine” ad ogni costo. Morti, sparizioni, manipolazione dei mezzi informativi, sequestri lampo, maltrattamenti, violenze sessuali e psicologiche, violazione delle garanzie individuali, giudiziarie e della libertà d’espressione, repressione fisica e tortura sono solo alcune delle accuse rivolte alle autorità locali e centrali tanto dalla CCIODH quanto dalla commissione governativa ufficiale, la controversa Comision Nacional de los Derechos Humanos (CNDH), che s’è espressa ufficialmente sui fatti di Oaxaca solo nel mese di marzo. In realtà, come segnala lo stesso rapporto della commissione internazionale, queste pratiche, nello Stato di Oaxaca e nel resto del Messico, vengono da molto lontano e sono state denunciate durante almeno tre decenni da una parte minoritaria della società civile e dal movimento dei docenti che è nato più di 25 anni fa. E’ a partire dalla sterile inflessibilità dell’ultimo governatore, eletto senza l’adeguata legittimazione democratica, e dall’inasprimento delle pratiche repressive contro l’opposizione e i giornali liberi, come il quotidiano Noticias de Oaxaca, che i docenti e poi il resto della società oaxaquegna hanno intrapreso una lotta che ha cominciato a sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale e internazionale aprendo un cammino nuovo per la riforma dello stato e il riconoscimento delle pratiche democratiche e condivise che già si realizzano nelle comunità locali.
DI FABRIZIO LORUSSO |
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Autore: |
Fabrizio Lorusso
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Il: |
11/04/2007 |
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